venerdì 23 luglio 2010

Giustizia per Faith

Pubblico la lettera scritta dall'ASGI (Associazione studi giuridici sull'immigrazione) per fare luce sulle inquietanti e gravissime violazioni dei diritti umani che si nascondono dietro il rimpatrio della giovane ragazza nigeriana

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Spett.le
Prefetto di Bologna
via IV Novembre, 24
40123 Bologna

Spett.le
Questore di Bologna
piazza G. Galilei
40123 Bologna

Spett.le
Garante dei diritti delle persone private della libertà personale
avv. Desi Bruno
piazza Roosvelt, 3
40121 Bologna

Spett.le
Comune di Bologna
Commissario governativo
dr.ssa Annamaria Cancellieri
piazza Maggiore, 6
40124 Bologna


Apprendiamo dalla stampa che una giovane nigeriana di nome Faith A., trattenuta presso il C.I.E. di Bologna per non aver ottemperato a pregresse espulsioni, in data 21 luglio 2010 è stata forzatamente rimpatriata in Nigeria, nonostante:

- avesse espresso la volontà di presentare richiesta di protezione internazionale, che di fatto presentava la mattina stessa attraverso il suo legale,

- nonostante nel suo Paese rischi la condanna a morte o il carcere a vita per avere ucciso un notabile che aveva tentato di stuprarla, motivo per cui la giovane si era rifugiata in Italia,

- nonostante fosse in attesa di definizione della procedura di regolarizzazione attivata sin dal settembre 2009.

Paradossalmente la giovane è stata rintracciata dalle forze di polizia dopo che queste erano state chiamate in suo soccorso, a seguito di un tentativo di violenza sessuale subito nella propria abitazione, che la giovane aveva denunciato!

Questa situazione è stata immediatamente segnalata alle Autorità di pubblica sicurezza, prima dell’inizio della esecuzione dell’espulsione così come durante l’esecuzione, ma ciò nonostante si è incredibilmente proceduto all’allontanamento ed al rimpatrio, incuranti ed indifferenti ai gravissimi rischi ai quali si sarebbe esposta la giovane straniera.

Evidenti ed inconfutabili sono le gravissime violazioni dei diritti umani di Faith e le gravissime responsabilità istituzionali per non averle consentito innanzitutto una tutela contro la violenza subita in Italia, nonché di beneficiare del diritto all’asilo politico sia attraverso il divieto di espulsione che consentendole un effettivo accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale, in violazione di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali (Conv. di Ginevra sui rifugiati del 1951 ma anche Convenzione europea dei diritti umani), dalla Costituzione italiana (art. 10, co. 3) e dalla legge italiana (art. 7 d.lgs. 25/2008 e art. 19 TU 286/98).

In considerazione di quanto sopra, si chiede che le Autorità in indirizzo forniscano, ognuno per la parte di competenza, ogni opportuno chiarimento in merito al fatto sopra descritto.

Si comunica che la scrivente Associazione si rivolgerà ai competenti Organismi internazionali per la verifica delle violazioni sopra descritte e per la tutela dei diritti della giovane Faith A..

In attesa di pronto riscontro

per ASGI:

avv. Nazzarena Zorzella
dott.ssa Barbara Spinelli

giovedì 22 luglio 2010

Comunicato GD sulle reazioni pubbliche alla sentenza 265/2010

                         


                      ASSOCIAZIONE NAZIONALE GIURISTI DEMOCRATICI

                                            Gruppo di ricerca “generi e famiglie”

La modifica dell’art. 275 comma 3 del codice di procedura penale che prevede l’obbligatorietà della misura custodiale in carcere per determinate ipotesi di reato è stata fortemente voluta dal Ministero delle Pari Opportunità quale “palliativo” capace di “sedare l’opinione pubblica” a fronte dell’incapacità di garantire adeguata protezione alle vittime donne e minori che scelgono di denunciare situazioni di violenza sessuale, atti sessuali con minorenne e prostituzione minorile.

Non si può certo pensare che soluzioni repressive irrazionalmente generalizzanti possano essere di per sé solo sufficienti a tutelare le vittime e ad avere efficacia deterrente.

Nel nostro ordinamento, l’applicazione delle misure cautelari è subordinata a specifiche condizioni di applicabilità (273 c.p.p.) ed a esigenze cautelari (274 c.p.p.). La custodia cautelare può essere disposta solo quando ogni altra misura cautelare risulti inadeguata (275 co.3 c.p.p.).

La pericolosità sociale dell’indagato ai fini della custodia cautelare in carcere è presunta unicamente per i reati di criminalità organizzata. Nelle altre ipotesi è sempre il giudice che, valutando anche la pericolosità del soggetto, deve decidere quale sia la misura cautelare più adeguata al caso concreto.

E’ pericolosissimo collegare a situazioni che si ritengono di allarme sociale l’obbligo di detenzione cautelare carceraria, anzi, è anticostituzionale, perché mina alle basi i principi cardine del nostro ordinamento democratico.

L’intervento della Corte Costituzionale era dunque dovuto e le reazioni emotive a questa sentenza sono inutili e ancora una volta espressione della politica del Governo Berlusconi che cerca di stravolgere i principi fondamentali del nostro ordinamento con la legislazione dell’emergenza.

Dire che la sentenza della Corte Costituzionale è ingiusta è espressione dell’incapacità di pensare ed attuare una risposta adeguata per prevenire tutti i crimini maschili contro le donne e i minori, come peraltro raccomandato più volte allo Stato italiano dal Comitato per l’attuazione della CEDAW (Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne).

Prevedere per legge la misura cautelare più gravosa, quella della custodia in carcere, come obbligatoria, vuole solo rassicurare la collettività ma di fatto non tutela davvero chi è vittima di questa tipologia di reati, che spesso si ritrova da sola ad affrontare le fasi del processo e quelle successive. Anzi, paradossalmente danneggia le donne vittime di violenze sessuali commesse da conoscenti, compaesani, amici.

Si deve prendere atto che in Italia c’è un diffuso clima culturale sessista che permea non solo chi commette questi reati, ma qualche volta anche chi è chiamato a decidere sugli stessi.

Molto spesso ad esempio nei reati di violenza sessuale la valutazione della gravità della condotta è sempre più ravvisata quando l’azione è commessa da un estraneo e su strada; al contrario, per le violenze che avvengono all’interno delle relazioni di lavoro, familiari, amicali, molto spesso viene riconosciuto un minore disvalore sociale, che a volte si traduce addirittura nella applicazione di una pena nei limiti della sospensione condizionale. Quale tutela per queste donne? Ovvero, quale tutela per la maggior parte – statisticamente parlando – delle vittime di violenza sessuale?

Detto questo, non si può pensare che il problema si risolva prevedendo la carcerazione come obbligatoria: il problema è culturale, e si risolve da un lato decostruendo gli stereotipi patriarcali sul ruolo della donna all’interno della società, e dall’altro con una adeguata formazione.

E’ tempo, anche in Italia come nel resto dell’Europa, di iniziare ad approcciare al gravissimo fenomeno criminale della violenza maschile sulle donne non soltanto attraverso l’utilizzo dello strumento penale, ma anche migliorando ed implementando l’utilizzo della l. 154/2001 e dunque degli ordini di allontanamento, fornendo ascolto e supporto effettivo, anche e soprattutto in termini psicologici ed economici, alle donne che denunciano di essere vittime di tali crimini durante la fase delle indagini e del procedimento penale.

E’ necessaria una formazione adeguata per valutare la situazione di rischio specifico che la donna corre nel momento in cui sceglie di denunciare la violenza che subisce.

Anziché imporre ai magistrati la carcerazione obbligatoria dell’indagato è decisamente più opportuno provvedere alla formazione specifica delle forze dell’ordine e della magistratura affinché venga garantita la protezione delle vittime di tali reati, con un uso adeguato di tutte le misure cautelari previste dal nostro ordinamento.

Questo richiede molte più risorse ovviamente, forse è per questo che nessuno ha il coraggio di parlarne.

Ma è questo quello che le donne che denunciano si aspettano: non vendetta, ma protezione, e il ritorno a una vita libera dalla violenza. Questo è diritto fondamentale che lo Stato ha l’obbligo di garantire sì, ma con gli strumenti adeguati.

L’incolumità psico-fisica della vittima non trova la sua massima tutela nella sola privazione della libertà dell’indagato in sede di indagini preliminari, ma piuttosto in una rete di protezione che è obbligo del Governo prevedere, garantire e attuare.

Bologna - Ravenna, 22 luglio 2010