martedì 16 febbraio 2010

Le Raccomandazioni del Comitato per l'applicazione della CEDAW al Governo Italiano (2005)

CEDAW/C/ITA/CC/4-5
15 Febbraio 2005
Traduzione dall’originale in lingua inglese [1]
*0523853*

Comitato per l’Eliminazione delle Discriminazioni contro le Donne.

Trentaduesima sessione
10-28 Gennaio 2005


Commenti conclusivi : Italia

1. Il Comitato ha analizzato il quarto e quinto rapporto[2] presentati dall’Italia (CEDAW/C/ITA/4-5) al 681 e 682esimo incontro del 25 Gennaio 2005.

Introduzione dello Stato Membro

2. Nell’introduzione, il rappresentante dello Stato membro evidenzia gli sforzi per riaffermare la dignità delle donne e proteggerle da ogni forma di discriminazione, abuso e violenza, a seguito della Piattaforma di azione di Beijing, che ha portato ad un rinnovato impegno per l’avanzamento dei diritti delle donne. Egli ha fornito un aggiornamento sugli sviluppi nelle quattro aree di interesse, a partire dalla situazione illustrata nel rapporto del 2002.
3. Nel 2003, erano state intraprese delle azioni per recepire a livello nazionale la Direttiva Europea 73/2002, che promuoveva prospettive di genere per favorire l’uguaglianza rispetto all’accesso al mercato del lavoro, all’educazione, alla formazione professionale, alle condizioni di lavoro e sociali.
La legislazione nazionale già vietava atti di discriminazione diretta e indiretta basata sul sesso, e la Direttiva estende la definizione di discriminazioni sessuali e molestie sul luogo di lavoro, nonché le misure che i dipendenti possono intraprendere a fronte di tali atti di discriminazione
4. L’impegno dello Stato membro nel voler rendere operativa la Convenzione si è manifestato nel 1996 attraverso l’istituzione del Ministero per le Pari Opportunità, il quale è responsabile della coordinazione e dell’effettiva attuazione delle politiche sulle Pari Opportunità. Il mandato e gli obiettivi della Commissione nazionale per le Pari Opportunità, che ora è stata presieduta dal Ministro, inoltre sono stati riformati . Nel 2004, il ministero ha stabilito l'Ufficio nazionale per la promozione dell’ uguaglianza e l'eliminazione di ogni discriminazione razziale ed etnica come strumento operativo per combattere tutte le forme di discriminazione.
5. L'impegno del Governo nel favorire la partecipazione delle donne alla fase decisionale politica e socio-economica si è riflesso nell’emendamento dell'articolo 51 della costituzione, con il quale si è introdotto il principio della eguaglianza e non discriminazione sessuale nell'accesso alle cariche pubbliche.
La legge 90/2004 richiede che almeno 1/3 dei candidati per le elezioni al Parlamento Europeo siano donne. Ciò ha comportato un aumento notevole in donne elette nel mese di giugno del 2004 (19.23 per cento del totale rispetto all’ 11.5 per cento nel 1999), ci si aspetta una percentuale simile per le altre elezioni.
6. Nonostante le sfavorevoli condizioni dell’economia, l’occupazione femminile continua a crescere, così come la presenza delle donne nella forza-lavoro. Il tasso delle donne imprenditrici è aumentato del 3.7 per cento fra il 1998 e il 2003. Fra il 2000 e il 2003, il 63 per cento dei nuovi operai erano donne. Una nuova iniziativa, nel quadro delle azioni UE per la promozione dell’uguaglianza di genere, è volta a promuovere il ruolo delle donne lavoratrici. L'impegno del Governo per favorire la famiglia si è riflesso, inter alia, nell’adozione di un piano d'azione nazionale per l’inclusione sociale, che ha puntato sulla prevenzione dell’emarginazione di anziani,bambini e inabili. La cosiddetta “legge Biagi” , di riforma del mercato del lavoro, ha previsto nuove forme di flessibilità, specialmente sotto forma di lavoro part-time, puntando in tal modo su una maggiore conciliabilità tra lavoro ed esigenze familiari, e sulla promozione delle pari opportunità per le donne, specialmente nel posto di lavoro. Nel 2003 sono stati anche stanziati dei fondi per supportare le imprese che desiderassero creare servizi di asilo e baby-sitting sui posti di lavoro.
7. E’ stata accordata la massima priorità alla protezione delle donne da ogni forma di violenza e disposizioni rigorose sono state promulgate a tale scopo, comprese leggi e politiche concernenti la violenza sessuale, la violenza domestica e l'abuso di bambini. Gli sforzi per combattere la tratta di donne e bambine, sia attraverso la legge che i servizi sociali, restano la priorità principale. Ex art.18 della legge 286, i permessi di soggiorno per motivi di protezione si sono potuti concedere anche alle vittime di tratta. Il settanta per cento dei costi per i programmi di assistenza sono stati stanziati dal governo, il resto proviene dai bilanci degli enti locali. Questo modo di procedere si è dimostrato efficace. La legge 228 del 2003, che ha stabilito la tratta di esseri umani come crimine specifico, rispecchia le disposizioni già presenti nel Protocollo per la prevenzione del traffico di esseri umani.
8. La salute delle donne costituiva uno dei punti principali del Quarto Congresso Mondiale sulle Donne ed il governo ha attribuito la massima importanza a questo tema. Il programma in tema di salute (2002-2004) include iniziative per ridurre il numero di parti cesari ed il progetto obiettivo Madre-Bambino che mira a realizzare livelli di attenzione e cura adeguati per ogni nascita, per ogni parto. Il Parlamento sta esaminando un testo di legge che prevede un’assistenza personalizzata per le donne incinte, per salvaguardare i loro diritti mentre sono in aspettativa.
9. In conclusione, il rappresentante dello Stato membro ha notato che anche se non tutte le aspettative erano state soddisfatte, il governo si è impegnato a realizzarle, e nuove strategie e politiche sono state sviluppate per eliminare tutte le forme di discriminazione di genere e per promuovere e politiche che concretamente favoriscano le pari opportunità. Il dialogo con tutti i soggetti rilevanti, compresi gli attori politici, le organizzazioni non governative ed i partner sociali, hanno rappresentato il modo migliore e più espressivo promuovere i diritti delle donne.


Commenti Conclusivi del Comitato

Introduzione

10. Il comitato esprime il proprio apprezzamento allo Stato membro per aver presentato insieme il quarto e quinto rapporto periodico (CEDAW/C/ITA/4-5), anche se si rammarica del fatto che sia stato presentato in ritardo, e che siano stati fornite informazioni analitiche insufficienti a comprendere la situazione di fatto in cui versano le donne, e che lo Stato non abbia seguito nella redazione del rapporto le linee guida di riferimento del Comitato.
Il Comitato inoltre si rammarica del fatto che il Rapporto non includa le informazioni sugli articoli 8[3], 9[4], 15[5] e 16[6] della Convenzione sull'Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne, informazioni che erano state richieste ed erano presenti nell’elenco delle domande, ma che non sono state fornite dallo Stato nelle risposte scritte.
11. Il Comitato esprime il proprio apprezzamento allo Stato membro per il dialogo costruttivo, ma si rammarica che la delegazione non sia stata in grado di fornire risposte brevi, chiare e dirette alle domande poste dal Comitato.
12. Il Comitato si rammarica per lo scarso coinvolgimento delle ONG nella preparazione e nella stesura del Rapporto.

Aspetti positivi

13.
Il Comitato elogia lo Stato membro per l'emendamento apportato all’'articolo 51 della Costituzione che, come è stato dichiarato dalla delegazione, è il mezzo attraverso il quale i principi della Convenzione, assumendo valore costituzionale, costituiscono la base fondante l'utilizzo di misure speciali provvisorie, compreso l'uso delle quote rosa per accelerare l'aumento della partecipazione delle donne nella vita politica e pubblica.
14. Il Comitato si congratula con lo Stato membro per le riforme legislative effettuate negli anni precedenti per l'avanzamento delle donne, compresa la legge 66/1996 sulla violenza sessuale, la legge 53/2000 sul congedo parentale e legge 154/2001 sulle misure di protezione da applicarsi alle donne oggetto di tratta.
15. Il Comitato si congratula con lo Stato membro per la ratificazione del Protocollo Opzionale alla Convenzione sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne nel settembre 2000, e anche per avere accettato l’emendamento all’art. 20, paragrafo 1[7], della Convenzione del maggio 1996.


Temi di principale preoccupazione per il Comitato e raccomandazioni

16.
Il Comitato fa notare l’obbligo dello Stato membro di attuare sistematicamente ed implementare costantemente tutte le misure della Convenzione. Al contempo, il Comitato ritiene che le preoccupazioni e raccomandazioni identificate nei presenti commenti conclusivi richiedano da parte dello Stato Membro un’attenzione prioritaria a partire da ora fino alla presentazione del prossimo rapporto periodico. Di conseguenza, il Comitato invita lo Stato membro a concentrarsi su questi temi nella sua attività di attuazione e di riferire sulle azioni intraprese e sui risultati ottenuti nel suo prossimo rapporto periodico. Invita altresì lo Stato membro a presentare i presenti commenti conclusivi a tutti i ministeri interessati e al Parlamento in modo da garantire la loro piena attuazione.
17. Il Comitato ritiene che lo Stato membro abbia preso misure inadeguate per attuare le raccomandazioni riguardo a varie preoccupazioni sollevate nei precedenti commenti conclusivi del Comitato adottati nel 1997. In particolare, il Comitato trova che le sue osservazioni sulla bassa partecipazione delle donne nella vita pubblica e politica (paragrafo 355), e la mancanza di programmi per combattere gli stereotipi attraverso il sistema scolastico e per incoraggiare gli uomini a prendersi le loro responsabilità e condividere i lavori domestici, siano state affrontate in maniera del tutto inadeguata.
18. Il Comitato ripropone tali temi fonte di preoccupazione e già oggetto di raccomandazioni, e sollecita con forza lo Stato membro a procedere senza ritardi alla loro attuazione.
19. Il Comitato esprime il proprio disappunto sul fatto che mentre l’emendamento all’art. 51 della Costituzione prevede le pari opportunità per uomini e donne, non vi è una definizione di discriminazione contro le donne, in base all’art. 1[8] della Convenzione, né nella Costituzione né nella legislazione, a parte che in materia di occupazione. Il Comitato è preoccupato dal fatto che la mancata previsione di tale specifica disposizione possa contribuire a far ritenere di limitata applicazione il concetto di parità sostanziale, come evidente nello Stato membro, anche tra i pubblici funzionari e la magistratura.
20. Il Comitato suggerisce che sia inclusa nella Costituzione o in leggi appropriate una definizione di discriminazione contro le donne in linea con l’art. 1 della Convenzione. Raccomanda anche l’attuazione di campagne di sensibilizzazione, affinché sorga non solo nell’opinione pubblica, ma soprattutto tra i funzionari pubblici, la magistratura e l’avvocatura, una maggiore consapevolezza circa l’esistenza ed il contenuto della Convenzione e gli obblighi dello Stato Membro in base alla Convenzione, e circa il significato e la portata della discriminazione contro le donne.
21. Pur riconoscendo gli sforzi dello Stato membro per apportare una prospettiva di genere in tutti i campi, il Comitato è preoccupato dell’assenza di meccanismi nazionali specifici per consentire l’avanzamento delle donne. Esso teme che, il fatto che l’operato del Ministero delle Pari Opportunità copra un certo numero di temi sulla la discriminazione, ciò possa portare all’attribuzione di una bassa priorità e alla scarsa attenzione alla natura specifica della discriminazione contro le donne ed alla sua importanza in tutti i campi dove essa è vietata. E’ anche preoccupato della erosione significativa dei poteri e delle funzioni della Commissione Nazionale per la Parità e per le Pari Opportunità.
22. Il Comitato suggerisce che lo Stato membro ponga in essere una struttura istituzionale che riconosca la specificità della discriminazione delle donne e che sia l’unica responsabile del progresso delle donne e del monitoraggio della realizzazione pratica del principio di parità sostanziale di uomini e donne nel godimento dei diritti umani. Al fine di ottenere ciò, il Comitato raccomanda il rafforzamento di una istituzione nazionale che monitori e renda effettivo il godimento da parte delle donne dei loro diritti umani in tutti i campi.
23. Il Comitato teme che la divisione su vari livelli dell’ autorità e delle competenze nello Stato membro possa generare difficoltà riguardo all’attuazione della Convenzione in tutto il Paese. Notando la piena responsabilità dei Governi nazionali negli Stati decentralizzati e federali nell’assicurare l’attuazione di obblighi internazionali da parte delle regioni, il Comitato si preoccupa dell’assenza di strutture nazionali appropriate, in grado di assicurare l’attuazione della Convenzione da parte di autorità e istituzioni regionali e locali.
24. Il Comitato raccomanda allo Stato membro di promuovere una uniformità legislativa e omogeneità di risultati nella attuazione della Convenzione in tutto il Paese, attraverso un coordinamento effettivo e la creazione di meccanismi per assicurare la piena attuazione della Convenzione da parte di tutte le autorità e istituzioni regionali e locali.
25. Permane la preoccupazione del Comitato sulla persistenza e pervasività dell’atteggiamento patriarcale e sul profondo radicamento di stereotipi inerenti i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia e nella società. Questi stereotipi minano alla base la condizione sociale delle donne, costituiscono un impedimento significativo alla attuazione della Convenzione, e sono all’origine della posizione di svantaggio occupata dalle donne in vari settori, compreso il mercato del lavoro e la vita politica e pubblica. Il Comitato è profondamente preoccupato anche dalla rappresentazione che viene data delle donne da parte dei mass media e della pubblicità, per il fatto che viene ritratta come oggetto sessuale e in ruoli stereotipati.
26. Il Comitato chiama lo Stato membro ad adottare un programma su larga scala, onnicomprensivo e coordinato, per combattere la diffusa accettazione di ruoli stereotipati di uomini e donne, incluse campagne di sensibilizzazione ed educative rivolte a donne e uomini, per cercare di favorire l’eliminazione di stereotipi associati ai ruoli tradizionali di uomini e donne nella famiglia e nella società in senso lato, in conformità con gli articoli 2(f)[9] e 5(a)[10] della Convenzione. Raccomanda che lo Stato membro faccia ogni sforzo per diffondere informazioni sulla Convenzione, sia tra gli attori pubblici che privati, al fine di accrescere la sensibilizzazione e la comprensione del significato e del contenuto del concetto di uguaglianza sostanziale delle donne. Raccomanda inoltre che i mass media e le agenzie pubblicitarie siano indotte ed incoraggiate a proiettare un’immagine delle donne come partner alla pari in tutte gli ambiti della vita e che ci si sforzi andando verso la stessa direzione, al fine di modificare la percezione delle donne come oggetti sessuali, e come responsabili in via principale della crescita dei figli.
27. Pur apprezzando il maggior numero di donne italiane al Parlamento Europeo, il Comitato rimane profondamente preoccupato per la grave sotto-rappresentanza delle donne nelle cariche politiche e pubbliche, compresi gli enti elettivi, la magistratura, e a livello internazionale. Il Comitato mostra in particolare il proprio rammarico e la propria preoccupazione per il fatto che la partecipazione politica delle donne a livello nazionale sia diminuita negli ultimi anni e rimane tra le più basse in Europa.
28. Il Comitato incoraggia lo Stato membro a intraprendere misure consistenti per incrementare la rappresentanza delle donne nelle cariche elettive, nell’assegnazione di incarichi istituzionali, nella magistratura e a livello internazionale. Raccomanda che lo Stato membro introduca misure appropriate, incluse misure speciali temporanee in conformità all’art. 4, par. 1[11], della Convenzione e alla raccomandazione generale 25 del Comitato, al fine di aumentare il numero di donne elette o che ricoprono pubblici incarichi. Incoraggia ulteriormente lo Stato Membro a velocizzare gli sforzi per l’approvazione della legge in base all’art. 51 della Costituzione per aumentare il numero di donne aventi cariche politiche e pubbliche, anche attraverso l’utilizzo delle quote, e di assicurare un’adeguata rappresentanza in tali cariche di donne ROM ed immigrate, e di donne dal Meridione. Il Comitato raccomanda che lo Stato membro effettui delle campagne di sensibilizzazione tra uomini e donne sull’importanza della partecipazione delle donne alla vita politica e pubblica e ai processi decisionali, e che si impegni a per creare condizioni che rendono possibile, incoraggino e supportino tale partecipazione.
29. Pur notando un netto aumento del tasso di occupazione tra le donne, il Comitato si preoccupa dei gravi svantaggi che le donne devono affrontare nel mercato del lavoro, tra le quali la sotto-rappresentazione delle donne in posizioni di rilievo, la maggior presenza di donne in alcuni settori sottopagati e nel lavoro part-time, il significativo divario salariale tra uomini e donne e la mancanza di attuazione del principio di parità salariale per uguali mansioni e carichi di lavoro. Pur notando che la legge 53/2000 riconosce il diritto di entrambi i genitori ad usufruire di un congedo dal lavoro per accudire un figlio nella prima infanzia, il Comitato teme che solo una percentuale molto piccola di uomini si avvantaggerà di tale opportunità.
30. Il Comitato sollecita lo Stato membro ad accelerare ed assicurare pari opportunità per uomini e donne nel mercato del lavoro, attraverso, tra l’altro, misure speciali temporanee in conformità all’art. 4, par. 1 della Convenzione e alla raccomandazione generale 25 del Comitato, e altresì sollecita ad assicurare una pari retribuzione per lavoro di pari valore. Raccomanda inoltre che lo Stato Membro estenda in toto le indennità di previdenza sociale ai lavoratori part-time, che sono perlopiù donne, e intraprenda misure per eliminare la segregazione lavorativa, in particolare attraverso l’istruzione e la formazione. Inoltre il Comitato sollecita lo Stato membro a fornire maggiore accesso all’impiego a tempo pieno (full-time)per le donne, e a migliorare la disponibilità di strutture infantili accessibili economicamente, e ad incoraggiare gli uomini, anche attraverso campagne di sensibilizzazione, ad assumersi pari responsabilità nella cure dei figli.
31. Il Comitato, pur tenendo in considerazione le riforme legislative in materia di violenza contro le donne, è preoccupato per la persistenza della violenza contro le donne, compresa la violenza domestica, e per l’assenza di una strategia globale per combattere tutte le forme di violenza contro le donne. Pur riconoscendo gli sforzi fatti dallo Stato membro per combattere la tratta di donne, il Comitato si preoccupa tuttavia dell’impatto su tali politiche della legge 189/2002 (legge "Bossi-Fini"), che concede potere discrezionale alle autorità locali di porre in essere restrizioni anche per le vittime di tratta e di permessi di emettere o meno il permesso di soggiorno.
32. Il Comitato sollecita lo Stato Membro ad accordare un’attenzione prioritaria all’adozione di misure onnicomprensive per affrontare la violenza contro le donne e le bambine in conformità alla relativa raccomandazione generale 19 sulla violenza contro le donne. Il Comitato sottolinea la necessità di attuare appieno e monitorare l’efficacia delle leggi sulla violenza sessuale e domestica, di fornire centri d’accoglienza, servizi di protezione e consultori per le vittime, punire e riabilitare i colpevoli, e provvedere alla formazione e sensibilizzazione dei pubblici funzionari, della magistratura e del pubblico. Il Comitato incoraggia altresì lo Stato Membro a ripensare la legge 189/2002, attraverso modifiche volte ad assicurare che tutte le vittime di tratta beneficino dei permessi di soggiorno per motivi di protezione sociale.
33. Il Comitato esprime il proprio rammarico per il fatto che il rapporto contenga dati e informazioni insufficienti sull’impatto delle politiche sanitarie sulle donne, in particolar modo rispetto all’impatto della privatizzazione della sanità sulla salute femminile, e rispetto all’efficacia delle iniziative intraprese per ridurre i parti cesarei e per la prevenzione del cancro. Il Comitato è preoccupato della mancanza di dati e di informazioni analitiche sull’assistenza alle donne anziane e sull’assistenza sanitaria disponibile per le donne nel Sud del Paese.
34. Il Comitato richiede allo Stato membro di monitorare l’impatto delle proprie politiche sanitarie sulle donne, compreso il Piano Sanitario Nazionale, e di fornire nel suo prossimo rapporto informazioni statistiche ed analisi dettagliate sulle misure adottate per migliorare la salute delle donne, compreso l’impatto di tali misure, in conformità con la raccomandazione generale 24 del Comitato sulle donne e la salute. Il Comitato richiede inoltre allo Stato membro di fornire informazioni sull’assistenza alle donne anziane, sulle politiche sanitarie in atto per le donne del Sud e sulle politiche di prevenzione della trasmissione dell’AIDS tra adulti, compreso l’impatto di dette misure.
35. Il Comitato è preoccupato del fatto che alcuni gruppi di donne, tra cui le ROM e le immigrate, si trovino costrette in una posizione vulnerabile ed emarginata, specialmente per quanto riguarda l’istruzione, l’impiego, la salute e la partecipazione alla vita pubblica e ai processi decisionali. Il Comitato è in particolar modo preoccupato dell’impatto della legge 189/2002, che impone ampie restrizioni alle donne immigrate lavoratrici, e teme per l’assenza di leggi e politiche atte a disciplinare lo status dei richiedenti asilo e dei rifugiati, in particolar modo per il mancato riconoscimento di forme di persecuzione correlate al genere quale motivazione possibile per l’ottenimento dello status di rifugiato.
36. Il Comitato sollecita lo Stato membro affinchè adotti misure concrete per l’eliminazione della discriminazione contro quei gruppi di donne maggiormente vulnerabili, tra cui le ROM e le immigrate, e affinché promuova il rispetto nei riguardi dei loro diritti umani con tutti i mezzi disponibili, comprese misure speciali temporanee in conformità all’art. 4, par. 1, della Convenzione e con la raccomandazione generale 25 del Comitato. Esso inoltre chiama lo Stato membro a fornire, nel suo prossimo rapporto periodico, un quadro globale della situazione in concreto delle donne ROM ed immigrate n per quanto riguarda il loro accesso all’istruzione, all’impiego, alla salute e alla partecipazione nella vita politica e pubblica. Il Comitato inoltre chiama lo Stato membro a riconsiderare le misure adottate con la legge 189/2002, per rimuovere le restrizioni che attualmente gravano sulle donne immigrate, e ad adottare leggi ed a promuovere politiche atte a riconoscere l’esistenza di forme di persecuzione correlate al genere quale motivo per il quale sia possibile accedere allo status di rifugiato.
37. Il Comitato richiede allo Stato membro di rispondere in merito alle preoccupazioni espresse nei presenti commenti conclusivi nel suo prossimo rapporto periodico che, sulla base dell’art. 18 della Convenzione, è da presentarsi nel 2006.
38. Il Comitato richiede allo Stato membro di assicurare un’ampia partecipazione di tutti i ministeri ed enti pubblici nella fase preparatoria del suo prossimo rapporto, e di consultare le ONG. Esso incoraggia lo Stato membro a coinvolgere il Parlamento in una discussione del rapporto prima di sottoporlo al Comitato.
39. Tenendo conto delle dimensioni che le questioni di genere occupano nelle dichiarazioni, programmi e nelle piattaforme di azione adottate dalle relative conferenze, summit e sessioni speciali delle Nazioni Unite, così come nella sessione speciale dell’Assemblea Generale per la revisione e valutazione dell’attuazione del Programma di Azione della Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo (ventunesima sessione speciale), nella sessione speciale dell’Assemblea Generale sui bambini (ventisettesima sessione speciale), nella Conferenza Mondiale contro il razzismo, la Discriminazione Razziale, la Xenofobia e le Intolleranze correlate e e nella Seconda Assemblea Mondiale sull’Invecchiamento, il Comitato richiede allo Stato membro di includere nel suo prossimo rapporto periodico informazioni sull’attuazione degli aspetti di quei documenti correlati ai temi dei relativi articoli della Convenzione.
40. Il Comitato rileva l’adesione della maggior parte degli Stati membri ai sette maggiori strumenti internazionali per la tutela dei diritti umani, cioè il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (CESCR), il Patto Internazionale sui Diritti Politici e Civili (CCPR), la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale (CERD), la Convenzione sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), la Convenzione contro la Tortura ed altri trattamenti o Punizioni Crudeli, Inumani, o Degradanti (CAT), la Convenzione sui Diritti del Bambino (CRC), la Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Diritti di Tutti i Lavoratori Immigrati e dei loro Familiari (MWC), che contribuisce a rafforzare il godimento da parte delle donne dei loro diritti umani e delle loro libertà fondamentali in tutti gli aspetti della vita. Di conseguenza, il Comitato incoraggia il Governo italiano a considerare la ratifica del trattato del quale non è ancora sottoscrittore, cioè la Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Diritti di Tutti i Lavoratori Immigrati e dei loro Familiari.
41. Il Comitato richiede un’ampia diffusione in Italia dei presenti commenti conclusivi al fine di rendere i cittadini, compresi i funzionari di governo, i politici, i parlamentari e le organizzazioni di donne e di diritti umani, consapevoli dei passi avanti che sono stati fatti per assicurare, di fatto e di diritto, la parità delle donne, nonché degli ulteriori passi necessari a tal proposito. Il Comitato richiede allo Stato membro di continuare a diffondere ampiamente, in particolare presso le organizzazioni di donne e di diritti umani, la Convenzione, il suo Protocollo Opzionale, le raccomandazioni generali del Comitato, la Dichiarazione e la Piattaforma di Azione di Pechino, e l’esito della 23a sessione speciale della Assemblea Generale, intitolata "Donne 2000: parità di genere, sviluppo e pace per il ventunesimo secolo".





[1]Il testo originale è consultabile sul sito :
http://www.un.org/womenwatch/daw/cedaw/cedaw32/conclude-comments/Italy/CEDAW-CC-ITA-0523853E.pdf
La traduzione è di Barbara Spinelli
[2] Il Rapporto è disponibile in Italiano sul sito http://www.pariopportunita.gov.it/DefaultDesktop.aspx?doc=471 , quello che purtroppo non era invece disponibile fino ad oggi è la traduzione in italiano delle Raccomandazioni del Comitato.
[3] Articolo 8 : Gli Stati parti prendono ogni misura adeguata affinché le donne, in condizione di parità con gli uomini e senza discriminazione alcuna, abbiano la possibilità di rappresentare i loro governi a livello internazionale e di partecipare ai lavori delle organizzazioni internazionali.

[4] Articolo 9 :
1. Gli Stati parti accordano alle donne diritti uguali a quelli degli uomini in materia di acquisto, mutamento e conservazione della cittadinanza. In particolare, garantiscono che né il matrimonio con uno straniero, né il mutamento di cittadinanza del marito nel corso del
matrimonio possa influire automaticamente sulla cittadinanza della moglie, sia rendendola apolide sia trasmettendole la cittadinanza del marito.
2. Gli Stati parti accordano alla donna diritti uguali a quelli dell'uomo in merito alla cittadinanza dei loro figli.

[5] Articolo 15 :
1. Gli Stati parti riconoscono alla donna la parità con l'uomo di fronte alla legge.
2. Gli Stati parti riconoscono alla donna, in materia civile, una capacità giuridica identica a quella dell'uomo e le medesime possibilità di esercitare tale capacità. Le riconoscono in particolare diritti eguali per quanto concerne la conclusione di contratti e l'amministrazione
dei beni, accordandole il medesimo trattamento in tutti gli stadi del procedimento giudiziario.
3. Gli Stati parti convengono che ogni contratto e ogni altro strumento privato, di qualunque tipo esso sia, avente un effetto giuridico diretto a limitare la capacità giuridica della donna, deve essere considerato nullo.
4. Gli Stati parti riconoscono all'uomo e alla donna i medesimi diritti nel campo della legislazione relativa al diritto che ogni individuo ha di circolare liberamente e di scegliere la propria residenza o domicilio.

[6] Articolo 16
1. Gli Stati parti prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio, e nei rapporti familiari e, in particolare, assicurano, in condizioni di parità con gli uomini:
a) lo stesso diritto di contrarre matrimonio;
b) lo stesso diritto di scegliere liberamente il proprio congiunto e di contrarre matrimonio soltanto con libero e pieno consenso;
c) gli stessi diritti e le stesse responsabilità nell'ambito del matrimonio e nell'ambito del suo scioglimento;
d) gli stessi diritti e le stesse responsabilità come genitori, indipendentemente dalla situazione matrimoniale, nelle questioni che si riferiscono ai figli. In ogni caso, l'interesse dei figli sarà la considerazione preminente;
e) gli stessi diritti di decidere liberamente, e con cognizione di causa, il numero e l'intervallo delle nascite, e di accedere alle informazioni, all'educazione ed ai mezzi necessari per esercitare tali diritti;
f) i medesimi diritti e responsabilità in materia di tutela, curatela, affidamento ed adozione di minori, o simili istituti allorché questi esistano nella legislazione nazionale. In ogni caso, l'interesse dei fanciulli sarà la considerazione preminente;
g) gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome, di una professione o di una occupazione;
h) gli stessi diritti ad ambedue i coniugi in materia di proprietà, di acquisizione, gestione, amministrazione, godimento e disponibilità dei beni, tanto a titolo gratuito quanto oneroso.
2. I fidanzamenti ed i matrimoni tra fanciulli non avranno effetto giuridico e tutte le misure necessarie, comprese le disposizioni legislative, saranno prese al fine di fissare un'età minima per il matrimonio, rendendo obbligatoria l'iscrizione del matrimonio su un registro ufficiale.



[7] Il Comitato si riunisce di norma per un periodo di due settimane al massimo ogni anno per esaminare i rapporti presentati ai sensi dell’art. 18 della presente Convenzione.

[8] Ai fini della presente Convenzione, l’espressione “discriminazione contro le donne” sta ad indicare ogni distinzione o limitazione basata sul sesso, che abbia l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, culturale, civile, o in qualsiasi altro campo.

[9] Articolo 2: Gli Stati parte condannano la discriminazione contro le donne in ogni sua forma, convengono di perseguire, con ogni mezzo appropriato e senza indugio, una politica tendente ad eliminare la discriminazione contro le donne, e, a questo scopo, si impegnano a:
a)iscrivere nella loro costituzione nazionale o in ogni altra disposizione legislativa appropriata, il principio dell’uguaglianza tra uomo e donna, se questo non è ancora stato fatto, e garantire per mezzo della legge, o con ogni altro mezzo appropriato, la realizzazione pratica di tale principio;
b)adottare appropriate misure legislative e di altra natura, comprese, se del caso, quelle di natura sanzionatoria, per proibire ogni discriminazione nei confronti delle donne;
c)instaurare una protezione giuridica dei diritti delle donne su un piede di parità con gli uomini al fine di garantire, attraverso i tribunali nazionali competenti ed altre istituzioni pubbliche, un’efficace protezione delle donne contro ogni atto discriminatorio;
d)astenersi da qualsiasi atto o pratica discriminatoria contro le donne e garantire che le autorità e le istituzioni pubbliche agiscano in conformità con tale obbligo;
f)prendere ogni misura adeguata per eliminare la discriminazione contro le donne da parte di qualsivoglia persona, organizzazione o impresa;
g)prendere ogni misura adeguata, comprese le disposizioni di legge, per modificare o abrogare ogni legge, regolamento, consuetudine e pratica che costituisca discriminazione contro le donne;
h)abrogare dalla normativa nazionale tutte le disposizioni penali che costituiscono discriminazione contro le donne.

[10] Articolo 5:Gli Stati parte devono prendere ogni misura adeguata per:
a)modificare gli schemi ed i modelli di comportamento sociali e culturali degli uomini e delle donne, al fine di ottenere l’eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, basate
sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso, o sull’idea dei ruoli stereotipati degli uomini e delle donne,
b) far sì che nell’educazione familiare sia integrata una comprensione del ruolo sociale della maternità ed il riconoscimento della responsabilità comune di uomini e donne nell’allevamento e nella crescita dei figli, restando inteso che l’interesse dei figli è in ogni caso la considerazione principale.

[11] Articolo 4: Non va considerata discriminazione, ai sensi della definizione indicata nella presente Convenzione, l’adozione da parte degli Stati parte di misure temporanee speciali finalizzate ad accelerare l’uguaglianza di fatto tra uomini e donne; tali misure, tuttavia, non devono in alcun modo dar luogo al permanere di norme disuguali o distinte, e devono essere abrogate non appena raggiunti i loro obiettivi in materia di uguaglianza di opportunità e di trattamento.
L’adozione da parte degli Stati parte di misure speciali, comprese le misure previste dalla presente Convenzione, finalizzate a proteggere la maternità, non è considerata un atto discriminatorio.

Cedaw e violenza di genere: dal locale al globale

Intervento di Barbara Spinelli, (Gruppo Studi di Genere Giuristi Democratici) al convegno Cedaw e violenza di genere in una prospettiva internazionale, esperienze a confronto

Roma, 21 novembre 2009
Buongiorno a tutte.
Come ha sostenuto Pierre Bourdieu, il dominio maschile sulle donne è la più antica e persistente forma di oppressione esistente al mondo.
Il Premio Nobel Amartya Sen, in riferimento alla condizione delle donne nel mondo, ha parlato di “hidden gendercide”, genericidio nascosto, per indicare come ancora oggi, in Italia e nel mondo, la prima causa di morte per le donne sia proprio l’uccisione da parte di un uomo, e come questo dato statistico sulle dimensioni della violenza di genere venga spesso occultato.
Nonostante la consapevolezza diffusa del fatto che la donna sia una Persona, e dunque, alla pari dell’uomo, portatrice di una sfera di dignità, di libertà, di integrità psico-fisica inviolabile, e nonostante tale principio sia stato giuridicamente codificato, assistiamo a palesi violazioni dei diritti umani delle donne in tutto il mondo, per il solo fatto di essere donne.

Noi Giuriste Democratiche, come molte altre femministe e studiose nel mondo, preferiamo parlare di “femminicidio”, per indicare la “matrice comune” di ogni forma di discriminazione e violenza di genere.
Riprendendo la teoria elaborata da Marcela Lagarde sulle orme di Diana Russell, riteniamo che sia le azioni poste in essere da singoli uomini di violenza fisica, psicologica, economica, sia le norme o le prassi che sanciscono o provocano come effetto discriminazioni sociali o nel godimento di diritti o nell’accesso ai beni per le donne, tutti questi atti, allo stesso modo, rappresentano forme diverse di esercizio di potere maschile sulla donna. Questi atti vengono posti in essere allo scopo che il comportamento della donna risponda alle aspettative dell’uomo e della società (patriarcale), che la vorrebbero riconosciuta esclusivamente in funzione del ruolo sociale che è chiamata a ricoprire in ragione del suo essere donna: il ruolo di madre, moglie, figlia, oggetto sessuale.
Queste forme di controllo sociale annientano l’identità privata e pubblica della donna, assoggettandola fisicamente o psicologicamente, economicamente, limitandone la sfera di autodeterminazione giuridicamente, politicamente, socialmente: in tal modo costituiscono il principale ostacolo alla autodeterminazione ed al godimento dei diritti fondamentali di più di metà della popolazione mondiale.
Questa visione onnicomprensiva della violenza di genere è ripresa anche dall’art. 1 della CEDAW, la Convenzione per l’Eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, in cui si afferma che “l'espressione "discriminazione nei confronti della donna" concerne ogni distinzione esclusione o limitazione basata sul genere, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su base di parità tra l'uomo e la donna”.
Per questo, è importantissimo essere qui oggi e fornire una lettura del fenomeno della violenza maschile sulle donne in Italia e nel mondo, delle discriminazioni di genere, declinandole come violazioni dei diritti umani.
Le donne di tutto il mondo negli ultimi due secoli hanno intrapreso con forza un percorso politico e giuridico volto all’affermazione che i diritti delle donne sono diritti umani.

Molto spesso tuttavia le attiviste che negli anni hanno lottato per i diritti delle donne, sono state viste come attiviste che lottavano per rivendicazioni “parziali” e non per il riconoscimento dei diritti fondamentali di più di metà della popolazione mondiale.
Là dove ancora oggi le donne sono oppresse e i diritti fondamentali vengono loro negati per legge, è possibile perché in quel luogo, ancora, come da sempre, la condizione delle donne viene ritenuta un fatto legato alla tradizione, alla cultura, alla religione, non un qualcosa che concerne i diritti fondamentali di esseri umani, che riguarda l’intera società. Dunque, ancora oggi in molti Paesi del mondo la discriminazione e l’esclusione delle donne dal godimento dei diritti fondamentali, essendo considerata un fattore legato alla tradizione, viene perpetrata anche dalle Istituzioni, attraverso la legislazione e l’amministrazione della giustizia, senza essere considerata una grave lesione dei diritti fondamentali della Persona, fonte di responsabilità e di obblighi precisi assunti attraverso la ratifica di Convenzioni internazionali.
Giustamente Simona prima faceva notare come, anche in termini lessicali, è stato davvero difficile passare dal riconoscimento dei diritti dell’uomo nell’ambito del diritto internazionale, al riconoscimento dei diritti umani, come anche inclusivi dei diritti delle donne.
Questo ragionamento vale sicuramente anche per la CEDAW, che originariamente nasceva come Dichiarazione, e soltanto nel 1979 veniva ufficialmente adottata come Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne. Il passaggio da “carta dei diritti” a Convenzione è stato fondamentale perché, potendo essere ratificata dagli Stati, la CEDAW ha fatto ingresso negli ordinamenti giuridici interni con valore di fonte giuridica primaria, produttiva di obblighi giuridici e vincoli istituzionali per gli stati. Non più soltanto un impegno politico degli Stati per il riconoscimento dei diritti umani alle donne, ma un’obbligazione internazionale.
Qualora uno Stato adotti senza riserve la Convenzione ed il Protocollo Opzionale, esso si obbliga non solo nel creare le condizioni (abrogando norme discriminatorie o prevedendo leggi ad hoc là dove manchino) per il riconoscimento giuridico dei diritti fondamentali (diritto al voto, alla proprietà terriera, i pari diritti nel matrimonio, il diritto all’accesso all’educazione alle donne, ecc.) ma anche si impegna al fine di rendere effettivo per le donne il godimento di questi diritti.
Nel nostro ordinamento la CEDAW è stata ratificata con la legge n. 132 del 14 marzo 1985 ed è entrata in vigore dal 10 luglio 1985. Ha valore di fonte costituzionale, ed i principi affermati nella Convenzione fungono come parametri interposti nel giudizio di legittimità costituzionale sulle norme interne.
Poiché l’Italia ha aderito senza riserve anche al Protocollo opzionale, la Convenzione per noi rappresenta anche un importante strumento di monitoraggio dell’impegno dello Stato nella promozione di azioni positive di contrasto alla discriminazione di genere e per favorire la realizzazione del diritto di ogni donna e bambina ad una vita libera da ogni forma di violenza.
Come giustamente osservava Titti Carrrano nel suo intervento, noi in Italia abbiamo una legislazione che formalmente garantisce alle donne le cosiddette “pari opportunità”, i diritti fondamentali, siamo dunque soggetti di diritto. Non è una cosa scontata.
Tuttavia in Italia, come in molti altri Paesi sviluppati, nonostante i principi della CEDAW siano stati declinati in una normativa interna “di pari opportunità”, di fatto la donna viene ancora discriminata ed è soggetta a violenza quotidiana

Qui come altrove i diritti fondamentali delle donne a livello normativo sono riconosciuti, quello che manca è una concreta attuazione del quadro normativo esistente, e lo stanziamento di fondi adeguati, che garantiscano alle donne il concreto godimento dei loro diritti. Una realizzazione di pari possibilità di autodeterminazione nel pubblico e nel privato che è ostacolata di fatto dal persistere diffuso di una cultura patriarcale, ancora egemonica.
Ed è proprio questo che a ci unisce qui, donne provenienti da molte parti del mondo, e diventa il perno centrale della campagna.
E’ per questo che anche noi come attiviste italiane abbiamo scelto con forza di ricordare questo appuntamento, i trent’anni dall’adozione della CEDAW, con una campagna di sensibilizzazione, perché oggi il tema cruciale nella battaglia contro la discriminazione di genere è proprio insistere per l’eliminazione di quegli ostacoli “materiali” che impediscono alle donne il godimento in concreto dei diritti fondamentali che pure vengono loro riconosciuti.
Ad oggi, la donna è di fatto discriminata: fatica ad accedere alle cariche pubbliche, è colei che -ci dicono le statistiche- subisce maggiormente la crisi, ha una posizione maggiormente precaria per quanto concerne il lavoro, viene retribuita con un salario minore a parità di mansioni, viene rappresentata come oggetto sessuale, è oggetto di avances indesiderate dai suoi superiori, resta la responsabile in via principale del lavoro domestico e della crescita dei figli.
Ancora oggi le norme in materia di pari opportunità, anche nei paesi europei, spesso non sono pensate avendo come obbiettivo la promozione dei diritti della donna, la creazione di strumenti per consentire alla donna di uscire da situazioni di violenza, di discriminazione sociale, economica, politica etc. ma sono pensate piuttosto al fine di tutelare la donna come “soggetto debole”. Molto spesso di fatto le norme di contrasto alle discriminazioni ed alla violenza di genere divengono uno strumento di consenso politico, e di fatto, tacciandosi per politiche “di genere”, strumentalizzano la donna e le dimensione del femminicidio per aumentare il controllo sociale e la repressione dell’immigrazione clandestina, sulla base del falso pregiudizio –smentito da tutte le statistiche- che la maggior parte delle violenze sia posta in essere per strada da stranieri. Senza avere il tempo di spiegare analiticamente la ratio e i contenuti della norma, mi limito a richiamare in tal senso le modalità di normazione adottate nel nostro paese in materia di violenza sessuale ed i contenuti dei recenti pacchetti sicurezza.
E’ chiaro che è in atto una forte strumentalizzazione di quello che è il problema della violenza sulla donna. La rappresentazione falsata e stereotipata della realtà, è possibile perché in Italia non vengono stanziati fondi sufficienti per elaborare statistiche e finanziare osservatori permanenti. Dalle poche statistiche che abbiamo però sappiamo che in Italia soltanto l’11% delle uccisioni di donne viene commesso da sconosciuti al di fuori delle mura domestiche, e soltanto il 7 % degli stupri viene fatto su strada. (Nel 2008, il 54% dei femminicidi è stato commesso dal partner o ex partner, il 21% da altro parente, il 14% da altra persona conosciuta, l’11% da sconosciuti). Il che significa che su 10 omicidi di donne, 7 sono femminicidi commessi per mano di partner, ex, o famigliare della vittima. I dati per gli stupri sono analoghi.
La violenza maschile sulle donne avviene tra le mura domestiche e nell’ambito delle relazioni coniugali perché in Italia come in altri paesi europei, nonostante l’evoluzione normativa, è ancora forte l’idea che la donna debba essere legata al ruolo di madre e di moglie, di cura della famiglia oppure valga solo in quanto oggetto sessuale, ancora si parla di donne per bene e donne per male. Nel momento in cui la donna sceglie invece di autodeterminarsi e di allontanarsi da situazioni di denigrazione, di controllo, aumenta la violenza fisica, inizia lo stalking. Nel momento in cui nasce un conflitto della coppia questo conflitto si trasforma in forme di controllo economico, di violenza psicologica, di violenza fisica, che arriva fino all’uccisione della donna.
Per questo il problema, come giustamente notava Titti Carrano, è un problema di carattere culturale: il problema è ancora l’eliminazione di una mentalità patriarcale che vuole la donna ancora legata ai ruoli tradizionali, sia nel quotidiano privato che nell’immaginario erotico di corpo disponibile.
Questo immaginario sessista attraversa tutte le culture: è universale la volontà di controllo della donna come “risorsa creativa”, come “fattrice”, e dunque come perno della famiglia e della società stessa. Fino a quando, in nome della religione o in nome del bene superiore della collettività, gli Stati sacrificheranno la libertà e l’autodeterminazione della donna alla tutela della “morale” e della “famiglia”, alla protezione della donna in funzione del suo ruolo sociale di madre e moglie, i diritti fondamentali delle donne continueranno ad essere calpestati.

Gli stereotipi di genere sono ad oggi ancora radicatissimi e manca una volontà politica di agire, sia in senso giuridico che culturale, per eliminarli.
Dove vi è una connivenza istituzionale al machismo, alla misoginia, a patriarcato, vi è una
responsabilità di Stato. In Messico, il femminicidio è un crimine di Stato. Lo ha stabilito la CIDH in una recente sentenza sollecitata proprio dalle ONG a tutela dei diritti umani e dalle madri delle vittime di Ciudad Juarez.
Ma non solo, l’elenco degli “stati canaglia” che opprimono le donne sarebbe lungo.

Per questo, è necessario valorizzare la CEDAW come lente di analisi che evidenzi dove ancora si annida di fatto la discriminazione, per quanto riguarda gli aspetti presi in considerazione in tutti gli articoli.
La Convenzione è un importantissimo strumento politico per richiamare il Governo ad una corretta gestione delle risorse riservate alle politiche di pari opportunità, e per verificare che gli obbiettivi delle politiche e della normazione in materia di pari opportunità rispondano alle linee guida indicate periodicamente dal Comitato per l’applicazione della CEDAW.
Gli Stati che hanno ratificato la CEDAW e le altre carte regionali, si sono assunti un obbligo ben preciso: adoperarsi affinché le donne abbiano cittadinanza, ovvero affinché possano in concreto godere dei loro diritti fondamentali. Il che implica per lo Stato l’obbligo di attivarsi per rimuovere le situazioni discriminatorie non solo attraverso modifiche normative ma anche e soprattutto promuovendo un cambiamento culturale, riconoscendo che la libertà di scelta della donna, la sua integrità psico-fisica, sono valori assoluti, che vanno riconosciuti senza compromessi.

La nostra responsabilità, in quanto donne e in quanto attiviste, è grandissima: ognuna di noi è chiamata sul proprio territorio a reclamare che il silenzio e l’inattività degli Stati di fronte alle discriminazioni e violenze di genere che si consumano nei propri confini è una violazione dei diritti umani, che lede non solo le donne ma l’umanità tutta, perché ostacola lo sviluppo della democrazia e produce disuguaglianza e perdita di opportunità.

In Italia noi come Giuriste Democratiche abbiamo richiamato i principi della CEDAW in varie occasioni: nel proporre emendamenti al progetto di legge organica Bindi Mastella Pollastrini, nell’evidenziare le criticità del disegno di legge in materia di atti persecutori, nel censurare l’irruzione delle forze dell’ordine nel Policlinico di Napoli e l’accusa di feticidio nei confronti di una donna che regolarmente stava praticando l’IVG.
Abbiamo perfino proposto una interrogazione parlamentare a risposta scritta (On. Deiana, Dioguardi, De Simone, n. 4-02065 del 2006) per chiedere perché le Raccomandazione provenienti dal Comitato per l’applicazione della CEDAW non fossero state né tradotte, né diffuse, né poste alla base dei lavori parlamentari in materia. Ovviamente, ad oggi non abbiamo avuto risposta.
Più recentemente, abbiamo richiamato i principi del Comitato e le Raccomandazioni del Comitato per l’applicazione della CEDAW per chiedere la rimozione di una infausta e sessista pubblicità che era stata utilizzata dai poli romagnoli dell’Università di Bologna per promuovere le immatricolazioni. Questa pubblicità rappresentava quattro ragazze su sfondo bianco, che rappresentavano le quattro sedi romagnole dell’Università di Bologna, vestite da power ranger, da fantastiche quattro con delle tutine attillate, bianche, trasparenti, da super eroina, con il nome della città in bella vista all’altezza del seno, ovviamente sorretto da wonderbra. Lo slogan era: Le Fantastiche 4 - Cesena, Forlì, Ravenna, Rimini - Il massimo per i tuoi studi universitari. Quindi un’immagine molto sessualizzata, erotica, che richiamava al fatto che la riviera romagnola è internazionalmente conosciuta come luogo di divertimento e dunque andare all’università lì avrebbe concesso ai giovani immatricolandi di godere di quelle bellezze, “il massimo”, secondo chi ha ideato la campagna evidentemente, che un ragazzo fuorisede si aspetta nella sua esperienza universitaria. Aldilà dell’interpretazione che se ne voglia dare, è evidente che la pubblicità delle “Fantastiche4” è lesiva della dignità della donna e discriminatoria, in quanto veicola stereotipi di genere. Noi nel chiedere la rimozione dei manifesti e il ritiro della campagna pubblicitaria, divenuta poi caso nazionale, abbiamo richiamato all’attenzione delle istituzioni e delle Università proprio il fatto che questa pubblicità era discriminatoria in quanto contrastava con i principi sanciti dalla CEDAW e ribaditi dalle raccomandazioni all’Italia del 2005, oltre che con la Carta europea per le pari opportunità nelle vita locale, Carta a cui il Comune di Ravenna aveva aderito.
Questi erano semplicemente esempi di come anche in Italia sia possibile attivarsi chiedendo il rispetto e l’attuazione dei principi sanciti dalla CEDAW non solo da parte delle Istituzioni ma anche da parte degli enti pubblici, degli enti locali, dei privati.

La CEDAW vive nel momento in cui ognuna di noi riconosce nel fatto che le accade, o che accade nella propria comunità, la concreta lesione di uno dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, e, riconosciutolo, lo denunci in quanto tale, sia politicamente sia anche utilizzando le procedure specifiche previste dalla Convenzione.
Mettersi in rete, invocando ognuna nei propri Paesi il rispetto e l’attuazione dei principi sanciti dalla CEDAW, significa essere unite nella lotta alle discriminazioni e violenze di genere, concretamente, per costruire una società migliore, libera da ogni forma di oppressione.