lunedì 21 novembre 2011

Stereotipi, pregiudizi, diritti e democrazia

STEREOTIPI, PREGIUDIZI, DIRITTI E DEMOCRAZIA

Per una critica di genere del diritto e della politica.

Avv. Barbara Spinelli

Contributo inserito nel documento programmatico per l’Assemblea nazionale dei Giuristi Democratici
Padova, 26-27 novembre 2011

Qui il mio intervento in formato pdf e completo di note e di Raccomandazioni CEDAW
Qui il documento programmatico in versione integrale pdf
Qui la locandina con il programma dell'Assemblea nazionale pdf

I.

E’ evidente che, nonostante l’Italia abbia ratificato i principali trattati internazionali in materia di diritti umani, e nonostante ormai la tutela dei diritti fondamentali abbia raggiunto una dimensione “multilivello” (internazionale, comunitaria, nazionale) estremamente capillare, manca ancora una adeguata cultura politica, sociale e giuridica in grado di riconoscere in concreto le violazioni dei diritti umani e combatterle in quanto tali, attraverso la predisposizione di politiche adeguate e attraverso un utilizzo consapevole degli strumenti di tutela esistenti.

Un esempio concreto di tale vuoto culturale è la mancata istituzione nel nostro Paese di un organismo indipendente di monitoraggio e tutela dei diritti umani. Da decenni infatti l’Italia è inadempiente ai Principi di Parigi, ed alle Raccomandazioni provenienti da ciascuno dei 6 Comitati ONU che sollecitano la creazione di una Commissione nazionale indipendente per la promozione e protezione dei diritti umani.

Nonostante l’Italia abbia annunciato nel corso della Revisione Universale Periodica del 2010 di essersi attivata in tal senso, il disegno di legge approvato il 3 marzo 2011 da parte del Consiglio dei Ministri non può considerarsi un avanzamento sufficiente verso l’effettivo adempimento dell’obbligazione assunta, anche determina un notevole regresso rispetto al precedente disegno di legge n. 1463 sul quale in data 01.05.2007 aveva già espresso parere tecnico il Dipartimento Istituzioni Nazionali dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per I diritti umani .

Se da un lato il Governo italiano è gravemente inadempiente rispetto alle obbligazioni internazionali assunte, e si rende responsabile di gravissime violazioni dei diritti fondamentali, dall’altro siamo di fronte a un sistema politico e ad una società civile eccessivamente inconsapevoli non solo del contenuto stesso delle obbligazioni dello Stato italiano in materia di diritti fondamentali, ma anche del funzionamento del sistema di monitoraggio dell’adempimento da parte dello Stato italiano delle obbligazioni internazionali e comunitarie assunte per garantire in concreto i diritti fondamentali, attraverso l’implementazione delle Convenzioni ratificate.

Questa ignoranza diffusa è resa possibile anche e soprattutto dal fatto che il Governo neanche si cura di tradurre e diffondere in lingua italiana i testi dei Treaty bodies, delle raccomandazioni generali, delle raccomandazioni specifiche rivolte all’Italia, ostacolando in tal modo una conoscenza diffusa dei diritti garantiti da queste Convenzioni e un controllo effettivo da parte della società civile circa l’effettivo adempimento delle raccomandazioni formulate dai vari comitati di controllo delle varie Convenzioni.

Il Parlamento nazionale e quelli regionali spesso ignorano queste disposizioni che invece dovrebbero costituire il faro delle riforme legislative, politiche e delle manovre economiche.

Anche il giurista più sensibile a questi temi, spesso, nella sua attività quotidiana, tende a richiamare nei propri atti in maniera citazionistica i diritti affermati nelle Convenzioni, ma senza riuscire di fatto ad individuare chiaramente il contenuto di quel diritto ed il perché in concreto esso è stato violato.

A ciò si aggiunga che l’Italia è uno dei pochissimi Paesi europei a non essersi mai avvalso degli strumenti di tutela previsti dal diritto internazionale dei Trattati per le violazioni singole o gravi e sistematiche di diritti fondamentali che avvengono all’interno del Paese.

Al contrario, in special modo a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, appare più che mai necessario che il legale abbia conoscenza adeguata del corpus giuridico dei Treaty bodies, e quindi non solo dei principi affermati dalle Convenzioni ONU ma anche e soprattutto della giurisprudenza e delle raccomandazioni prodotte dagli organismi di monitoraggio dell’implementazione di questi trattati. Questo bagaglio infatti è utilissimo all’interprete del diritto nazionale per riempire di significato/articolare i diritti sanciti dalla Costituzione e i principi derivanti dalle fonti dell’unione europea, e per passare dunque al vaglio la legittimità dei singoli provvedimenti e della normativa nazionale (ma anche comunitaria).

L’ignoranza del giurista medio spesso infatti ha costituito il principale ostacolo per un rapido passaggio dal riconoscimento dell’uguaglianza formale a quello dell’uguaglianza sostanziale.

Dunque una alfabetizzazione di base in materia di diritto internazionale umanitario costituisce sicuramente un buon inizio per declinare e far vivere nella nostra dimensione nazionale e locale i diritti fondamentali sanciti a livello internazionale e comunitario.

I diritti infatti vivono là dove vengono riconosciuti e reclamati in quanto tali.

II.

Il mancato riconoscimento di alcune situazioni quali violazioni gravi e sistematiche dei diritti fondamentali di un determinato gruppo o categorie di persone, determina inevitabilmente il declassamento di tali situazioni a problemi di ordine morale, etico, o politico che, in quanto tali, possono essere risolti o non risolti attraverso il ricorso ai peggiori compromessi possibili. Ovvero, a causa di un pregiudizio dovuto all’ignoranza (questa situazione non costituisce una violazione dei diritti fondamentali) automaticamente si perdono di vista i soggetti di diritto, persone i cui diritti sono fondamentali e inalienabili, e la questione diventa una delle tante che deve essere disciplinata come oggetto del diritto (io politico/legislatore mi sento libero di legiferare sulla base di quella che è l’opinione politica della maggioranza dominante, in quanto trattasi di questione etica/morale e non di questione che attiene i diritti fondamentali).

Questo in Italia avviene in particolar modo quando si tratta di discriminazione di genere e basata sull’orientamento sessuale e quando si tratta di discriminazione razziale.

Un esempio macroscopico è sotto gli occhi di tutti, e riguarda il vergognoso destino parlamentare delle leggi c.d. anti-omofobia. Come tutti ricorderanno, in ragione del crescente numero di aggressioni nei confronti di gay e lesbiche, nel 2009 sono stati presentati in Parlamento due disegni di legge (n. 1658 e n. 1882), per estendere la tutela penale accordata dalla Legge Mancino anche alle discriminazioni basate sull'orientamento sessuale. Nell’ambito della discussione parlamentare è stata sollevata un questione pregiudiziale di costituzionalità dal gruppo cattolico, approvata con il 54,8% dei voti, che ha determinato la bocciatura del disegno di legge. Ovvero, i membri della Camera, con una maggioranza di soli 63 voti, hanno ritenuto incostituzionale il testo del disegno di legge sostenendo che, in assenza di una definizione giuridica di “orientamento sessuale”, l'omosessualità e il lesbismo fossero paragonabili all'incesto, alla pedofilia e ad altri comportamenti sessuali devianti . Anche a fronte della presentazione del disegno di legge modificato, il voto è stato nuovamente negativo.

Questa catastrofe parlamentare, è stata possibile perché nel corso dell’iter legislativo la materia è stata trattata come la “concessione” di una tutela, come una questione morale, di buon senso (basta leggere i dibattiti parlamentari e i giornali per inorridire davanti al vuoto giuridico che ha caratterizzato il dibattito) e mai come una questione di eliminazione di una disparità di trattamento, di una discriminazione, già esistente. Ed infatti in Italia la discriminazione basata sul genere e sull’orientamento sessuale risulta la sola non tutelata penalmente, dunque le modifiche normative proposte si rendevano indispensabili per colmare un vuoto esistente... vuoto però del quale nessuno ha constatato l’esistenza, proprio perché manca la percezione del sessismo e dell’omofobia come forme di discriminazione degne di tutela alla pari delle altre. La l. 205/1993 (c.d. legge Mancino) infatti prevede come reati una serie di condotte commesse per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi Gli stessi comportamenti non sono penalmente perseguibili, ne tutelati in altro modo, se compiuti per motivi di discriminazione di genere o basata sull’orientamento sessuale, categorie di discriminazione non incluse nella legge Mancino.

Tale vuoto di tutela appare ancora più illogico e ingiusto censurabile se si considera che la legge Mancino richiama esplicitamente la CERD , Convenzione “gemella” della CEDAW , attuandola. Proprio in ragione della medesima tutela riconosciuta dalle due Convenzioni all’art. 2 nei confronti della discriminazione di genere e di quella per motivi razziali, etnici, o nazionali, è auspicabile una equiparazione di protezione anche a livello nazionale. Questo solo ragionamento, da nessuna forza politica espresso in Parlamento né altrove, sarebbe stato di per sé sufficiente ad avvalorare con forza la necessaria modifica della L. Mancino, non solo per motivi di discriminazione sessuale, ma anche di genere. E riconoscere un disvalore penale ai discorsi di odio basati sul genere, oltre che sulla razza, sull’etnia, sulla nazionalità o sulla religione, avrebbe forse reso i nostri politici meno propensi al costante utilizzo di boutade sessiste nel discorso politico.

Il nodo centrale infatti, emerso con prepotenza grazie al sessismo spudorato di Berlusconi, è l’assenza in Italia della volontà di affrontare seriamente le questioni di genere in ogni ambito della vita politica e pubblica. Cioè si continua a negare l’esistenza di un rapporto stringente tra l'immaginario collettivo sul ruolo della donna e la disciplina del suo corpo, dei suoi diritti, della sua libertà attraverso il diritto, ma anche la concezione della politica stessa e del ruolo delle donne nella politica.

Finchè l’Italia non sarà in grado di affrontare e sciogliere questo nodo, un ritorno ad una democrazia effettiva non sarà possibile, perché non può esserci democrazia là dove le donne non vengono considerate soggetti di diritto.

Questi mesi ci hanno dimostrato con chiarezza quanto gli stereotipi legati al ruolo tradizionale della donna nella società (Eva, la tentatrice, - escort o prostituta di strada-, Maria, la donna di casa, la madre di famiglia, Wonderwoman, la donna che deve curare la casa, figliare, ma anche lavorare alla pari dell’uomo andando in pensione senza differenze di età) influiscano pesantemente non solo sul destino e sui diritti di donne e bambine, ma sulla società tutta.

E’ un dato di fatto che il ruolo del movimento femminista è stato indispensabile per l'accesso ai diritti fondamentali da parte delle donne. Eppure, le riforme giuridiche approvate a partire dagli anni Settanta grazie al femminismo, si sono dimostrate insufficienti a garantire in concreto il godimento per le donne del diritto a una vita libera da qualsiasi forma di discriminazione e violenza. Infatti, alle modifiche normative non è seguito un cambio culturale. Gli stereotipi sul ruolo della donna nella società sono ancora profondamente radicati, e riscontrabili in molti dei discorsi politici, dei programmi dei governi, delle proposte di legge, degli arresti giurisprudenziali.

Questi stereotipi “minano alla base la condizione sociale delle donne, e sono all’origine della posizione di svantaggio occupata dalle donne in vari settori, compreso il mercato del lavoro e la vita politica e pubblica” (Osservazione Conclusiva n.15/2005 del Comitato CEDAW all’Italia).

Nonostante ciò ci venga evidenziato dagli organismi internazionale, in Italia ancora manca la capacità di cogliere la specificità della differenza di genere quale derivazione di una disparità di potere secolare tra uomini e donne. Il patriarcato esiste, ma ci si ostina a non riconoscerlo nelle forme in cui si manifesta.

Sulla base di una concezione cattolica e familista fortemente radicata, la differenza di genere viene ricondotta nell'alveo delle discriminazioni di cui sono vittima i “soggetti deboli”, così che le politiche di pari opportunità si risolvono in politiche assistenzialistiche e di tutela, anche mediante il ricorso allo strumento penale.

Dagli anni Settanta del secolo scorso si è determinato un netto spostamento di prospettiva dal c.d. paradigma dell'oppressione al c.d. paradigma della vittimizzazione : mentre la condizione pervasiva dell'oppressione richiede riforme di tipo strutturale, ovvero azioni rivolte a eliminare ostacolo al godimento effettivo dei diritti, come richiesto dalla CEDAW, la condizione soggettiva della vittimizzazione riduce il problema a una debolezza individuale, da tutelare, o a una situazione di rischio individuale, da arginare mediante l'utilizzo dello strumento penale.

L'assenza di un approccio di genere, la prevalenza di un approccio morale, ha determinato una profonda incoerenza tra quella che è la ratio posta a fondamento degli interventi politici e normativi in materia di pari opportunità e quello che dovrebbe essere il significato stesso delle pari opportunità, che, in attuazione dell'art. 3 Cost., dovrebbero costituire la “longa manus” dello Stato per attuare la CEDAW, le Raccomandazioni provenienti al Comitato CEDAW, e mediante tali azioni, operare al fine di “eliminare ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo,su base di parità tra l'uomo e la donna”(art. 1 CEDAW).

Al contrario, ancora oggi il diritto considera le donne in funzione del ruolo sociale rivestito (moglie, madre, oggetto sessuale), facendole oggetto di disciplina. Alla donna, in ragione della funzione procreatrice -oggetto di tutela-, non è concessa piena sovranità sul proprio corpo . Ciò la rende giuridicamente “individuo dimezzato” , in quanto non si ha il riconoscimento della soggettività piena della donna in quanto tale, ma avviene un declassamento a “non persona”, che rende i suoi diritti fondamentali “disponibili”, “relativi” in ragione del ruolo sociale assunto, e dunque ponderabili con altri beni socialmente rilevanti, quali ad esempio la morale della famiglia.

Il nesso tra legale e sociale è evidente. La relazione è biunivoca: se il diritto italiano è ancora profondamente androcentrico ed impermeabile al concetto di genere, è anche perché la società italiana continua ad essere ancora profondamente patriarcale, e viceversa.

Questo nesso come già evidenziato non investe soltanto la fase poietica del diritto, quella normativa, quanto pure la fase interpretativa, in grado essa stessa di riprodurre mediante il singolo giudizio le dinamiche di oppressione o di liberazione che il giudicante, là dove esistono vuoti normativi che lo consentano, può discrezionalmente assumere, facendosi o attore del mutamento sociale o ratificatore del discorso dominante.

Ciò comporta una deroga non scritta al carattere fondamentale dei diritti delle donne, il che si traduce in un vulnus alla democrazia.

III.

Davanti a un quadro così desolante, che fare? E che cosa è stato fatto dai Giuristi Democratici?

Va osservato che la nostra associazione, in stretta adesione al suo spirito statutario, è stata sempre in prima linea nel proporre una critica serrata al paradigma della vittimizzazione nell’approccio alle politiche di pari opportunità e nel promuovere proposte alternative in grado di concretizzare effettivi avanzamenti nella rimozione degli ostacoli strutturali che impediscono in concreto per le donne l’accesso ad alcuni dei diritti fondamentali, primi tra tutti la salute riproduttiva, il diritto alla genitorialità, e il diritto ad una vita libera dalla violenza.

Già nel 2006 infatti i Giuristi Democratici, in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, lanciarono un appello alle Istituzioni per una donna soggetto di diritti e non oggetto di diritti , nel quale ricordavano che promuovere l’autodeterminazione femminile e garantire una vita libera da ogni forma di discriminazione e violenza basata sul genere e sull’orientamento sessuale è un impegno che riguarda tutta la comunità, ma in primo luogo rappresenta un'obbligazione dello Stato, assunta non solo Costituzionalmente ex art. 3, ma anche a livello internazionale attraverso il riconoscimento della validità dei vari Trattati, Dichiarazioni e Convenzioni a tutela dei diritti fondamentali della Persona, ed in particolar modo attraverso la ratifica della CEDAW. Con quel appello si sottolineava che nella realizzazione degli interventi legislativi e governativi non si è affatto tenuto conto delle Raccomandazioni provenienti dal Comitato per l'attuazione della CEDAW e, per la prima volta, i Giuristi Democratici traducevano in italiano e diffondevano le Raccomandazioni del 2005 . Altresì, nello stesso anno, i Giuristi Democratici, nell’analisi del disegno di legge Bindi-Mastella-Pollastrini, chiamati in audizione in Commissione Giustizia, sottolinearono come il testo normativo nel proprio impianto non soddisfasse né valorizzasse quanto richiesto a livello europeo ed internazionale per l'avanzamento dei Diritti delle Donne. In particolare, i Giuristi Democratici in quella sede proposero specifici emendamenti che riqualificavano il testo armonizzandolo con le osservazioni contenute nelle Raccomandazioni del Comitato per l’applicazione della CEDAW.

Da allora, in numerose altre occasioni abbiamo espresso la nostra criticità (nei confronti di politiche securitarie e repressive in materia di violenza sessuale, nei confronti di campagne pubblicitarie, ecc.) facendo richiamo ai principi sanciti dalla CEDAW e, in particolare, alle Raccomandazioni rivolte al Governo italiano.

I Giuristi Democratici hanno anche promosso la costituzione di parte civile delle ONG nei processi per femminicidio e per discriminazione di genere sul lavoro , ottenendo importantissimi risultati in termini di sensibilizzazione e di avanzamenti giurisprudenziali.

Nel 2010 i Giuristi Democratici, in collaborazione con D.i.RE, donne in rete contro la violenza (la rete nazionale dei centri antiviolenza), hanno invitato in Italia la Special Rapporteur ONU contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo, che ha presenziato a tre eventi: il 13 gennaio 2010 a Roma, il 14 gennaio a Bologna, il 15 gennaio a Ravenna. Si è trattato di tre incontri pubblici nel corso dei quali la Special Rapporteur ha incontrato le ONG, le associazioni femminili e femministe e la comunità, per riflettere sulla condizione femminile in Italia a 25 anni dalla ratifica della CEDAW e nell’ambito dei quali sono state delineate linee guida per un approccio basato sui diritti umani nel contrasto alla discriminazione e violenza di genere, anche per quanto riguarda i diritti delle donne migranti e rifugiate. A Bologna i Giuristi Democratici hanno organizzato anche un seminario di formazione forense , qualificato e partecipatissimo, nel corso del quale è stato spiegato il funzionamento degli strumenti internazionali di tutela delle donne vittime di discriminazione e violenza di genere, e le procedure attraverso le quali possono essere attivati.

A seguito di questi incontri, grazie alla documentazione sistematica sul femminicidio in Italia e in Europa, per i Giuristi Democratici sono stata invitata in qualità di esperta all’incontro seminariale (export group meeting) promosso dalla Special Rapporteur ONU contro la violenza sulle donne a New York il 12 ottobre 2011 sugli omicidi di donne per motivi di genere, presentando un paper su “Femmicidio e femminicidio in Europa. Gli omicidi di donne quale esito di precedente violenza domestica”.

I Giuristi Democratici stanno continuando in maniera sistematica il monitoraggio sui diritti delle donne in Italia: sia avendo partecipato attivamente alla Piattaforma nazionale “30 anni di CEDAW – Lavori in corsa” ed avendo promosso e curato la redazione del Rapporto Ombra sulla attuazione della CEDAW in Italia , presentato a New York nel luglio 2011, sia attraverso l’appoggio alla visita ufficiale della Special Rapporteur contro la violenza sulle donne in Italia, che si terrà nel gennaio 2012, e il lavoro di costante monitoraggio relativo all’attuazione da parte dell’Italia delle nuove raccomandazioni avanzate dal Comitato CEDAW a seguito della presentazione del Rapporto Ombra.

I documenti prodotti e le iniziative in cantiere, gli aggiornamenti in materia e altro materiale informativo sono raccolti sia nella sezione “genere-famiglie” del sito dei Giuristi Democratici sia nel blog “Giuristi democratici per la CEDAW” .

Il lavoro che ci proponiamo di promuovere per il futuro non rappresenta altro che la continuazione di un percorso già consolidato di azioni di contrasto alla discriminazione e alla violenza di genere, che prevede momenti di sensibilizzazione contro il femminicidio, la formazione degli operatori giuridici sugli strumenti nazionale ed internazionali di contrasto alla discriminazione e violenza di genere, l’analisi delle norme e delle prassi discriminatorie tanto in ambito amministrativo, quanto in ambito giurisdizione e sociale in generale.

Il Rapporto ombra sulla implementazione della CEDAW in Italia rappresenta un vero e proprio libro nero sulle principali violazioni dei diritti delle donne italiane quali garantiti dalla Convenzione.

E’ la prima volta, dalla ratifica della Convenzione nel 1985, che un gruppo di donne, io, le altre colleghe di Giuristi Democratici e numerosissime altre donne provenienti da diverse realtà accademiche, associative e sociali del Paese, produce all’ONU un rapporto ombra della società civile, antagonista rispetto al rapporto governativo, che evidenzi le criticità e le mancanze rispetto alla (insufficiente) implementazione della Convenzione in Italia. Per me ha costituito la realizzazione di un sogno promuovere e coordinare questo progetto, e un grande onore, insieme alle altre rappresentanti delle associazioni della Piattaforma “Lavori in corsa-30 anni di CEDAW”, poterlo presentare alle Nazioni Unite nel corso della sessione di esame.

Al Rapporto Ombra hanno aderito tutte le principali ONG italiane, ma anche ACLI, collettivi femministi, singole e singoli .

La nostra partecipazione, anche di lobby fisica alle Nazioni Unite, oltre che con un corposo e dettagliato documento, alla procedura di monitoraggio relativa all’implementazione della CEDAW, ha consentito che venissero indirizzate al Governo raccomandazioni estremamente forti e specifiche, relative a questioni ignorate o affrontate in maniera non adeguata sia sul piano politico che normativo dalle Istituzioni, da noi sollevate in quella sede anche attraverso l’esposizione di casi concreti.

Molte delle raccomandazioni potranno essere utilizzate per promuovere riforme legislative, questioni di costituzionalità e azioni di responsabilità nei confronti dello Stato italiano.

Tra i temi evidenziati dal Comitato CEDAW ricordiamo in questa sede, in quanto trasversali alle attività associative e possibile oggetto di iniziative specifiche di informazione e di azione:

- R. 15/2011: la diffusione della Convenzione . Il Comitato è preoccupato che le disposizioni contenute nella Convenzione e nel Protocollo Opzionale, così come le raccomandazioni generali del Comitato, non sono state tradotte in italiano e non sono sufficientemente conosciute da tutte le amministrazioni, dalla società civile e tra le donne stesse. Il Comitato è inoltre preoccupato perchè la Convenzione non ha ricevuto lo stesso grado di visibilità e di importanza riservato agli strumenti giuridici regionali, in particolare alle Direttive UE, e pertanto non è regolarmente usata quale riferimento giuridico per le misure, comprese quelle legislative, volte alla eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne e alla promozione dell’uguaglianza di genere nello Stato-membro.

- R. 22-25/2011: la lotta culturale agli stereotipi sul ruolo tradizionale della donna nella società . Il Comitato rimane profondamente preoccupato per la rappresentazione della donna quale oggetto sessuale e per gli stereotipi circa i ruoli e le responsabilità dell’uomo e della donna nella famiglia e nella società. Tali stereotipi, contenuti anche nelle dichiarazioni pubbliche rese dai politici, minano la condizione sociale della donna, come emerge dalla posizione svantaggiata delle donne in una serie di settori, incluso il mercato del lavoro e l’accesso alla vita politica e alle cariche decisionali, condizionano le scelte delle donne nei loro studi ed in ambito professionale e comportano che le politiche e le strategie adottate generino risultati ed impatti diseguali tra uomini e donne.

- R. 26-27/2011: la violenza sulle donne . Il Comitato rimane preoccupato per l’elevata prevalenza della violenza nei confronti di donne e bambine nonché per il persistere di attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica, oltre ad essere preoccupato per la mancanza di dati sulla violenza contro le donne e bambine migranti, Rom e Sinte. Il Comitato è inoltre preoccupato per l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o ex-partner (femminicidi), che possono indicare il fallimento delle Autorità dello Stato-membro nel proteggere adeguatamente le donne, vittime dei loro partner o ex-partner.

- R. 28-31 /2011: tratta e sfruttamento della prostituzione Il Comitato è preoccupato che l’applicazione dell’articolo 18 del Decreto Legislativo n. 286/1998, che prevede un permesso speciale di residenza per le vittime di tratta e sfruttamento, può, se interpretato restrittivamente, privare di adeguata protezione le donne vittime di tratta che sono state trafficate in un altro Paese e successivamente portate in Italia a fini della tratta. Il Comitato è inoltre preoccupato del fatto che il “pacchetto sicurezza” adottato dal Governo nel 2010 ha seriamente impedito un’adeguata identificazione delle vittime potenziali di tratta da parte delle Forze dell’ordine. Il Comitato è preoccupato per il riconoscimento da parte dello Stato-membro che la proposta di criminalizzazione della prostituzione in spazi pubblici “ha una funzione di pubblica sicurezza e di decoro della vita urbana” e che apparentemente i diritti delle donne coinvolte nella prostituzione in strada - la maggior parte delle quali migranti - non sono stati presi in considerazione nella formulazione di tali misure. Il Comitato nota, inoltre, che lo Stato-membro considera la prostituzione come un fenomeno nascosto e sconosciuto che tende ad essere praticato in spazi chiusi. Il Comitato è preoccupato per l’assenza di programmi di assistenza e sostegno alle donne che desiderano lasciare la prostituzione e che non sono state vittime dello sfruttamento.

- R. 32-33/2011: partecipazione alla vita politica e pubblica . Il Comitato nota una limitata crescita della rappresentanza delle donne in Senato e alla Camera dei Deputati, ma rimane profondamente preoccupato per il fatto che le donne sono ancora sottorappresentate nel Parlamento Nazionale, a livello regionale, nel settore giudiziario, nelle posizioni di vertice della pubblica amministrazione e nella carriera diplomatica, così come in ruoli decisionali del settore privato, limitando così la partecipazione delle donne nei processi decisionali in tutti i settori. Il Comitato, inoltre, esprime preoccupazione per la mancanza di informazioni sulla presenza delle donne migranti nelle posizioni decisionali in un Paese dove i migranti costituiscono un’ampia percentuale della popolazione.

- R. 36-41/2011: lavoro . Il Comitato continua ad essere preoccupato per la situazione delle donne nel mercato del lavoro, caratterizzata dalla persistenza di un elevato tasso di disoccupazione femminile, nonostante l’alto livello di istruzione delle donne. Il Comitato intende portare all’attenzione dello Stato-membro la situazione di svantaggio delle donne che interrompono la propria carriera per ragioni familiari e le relative conseguenze sul pensionamento e le pensioni di anzianità, nonché la concentrazione delle donne in aree lavorative poco remunerative, la differenza salariale tra uomo e donna ed il fatto che un numero significativo di donne lascia la forza-lavoro dopo la nascita dei figli e che solo il 10% dei congedi parentali viene richiesto dai padri. Il Comitato nota l’intenzione dello Stato-membro di adottare un piano nazionale di riforma che preveda, entro il 2020, un aumento del 12% dell’occupazione femminile, oltre l’introduzione di incentivi per un lavoro stabile. A tal proposito, il Comitato sottopone all’attenzione dello Stato-membro l’obbligo di assicurare l’uniformità di risultati di una tale riforma su tutto il territorio nazionale.(…) Il Comitato è, inoltre, preoccupato per le difficoltà incontrate dalle donne immigrate e dalle donne con disabilità relativamente alla loro integrazione e partecipazione nel mercato del lavoro.

- R. 42-45/2011: salute . Il Comitato nota con preoccupazione che tale tipo di cancro –mammario- è il più comune oltre che causa di mortalità per le donne in Italia. Anche se il Comitato riconosce i risultati raggiunti su tutto il territorio nazionale, il Comitato rimane preoccupato che oltre il 60% delle donne nel Sud del Paese non hanno accesso alla mammografia perfino nella cornice dei programmi organizzati (…)il Comitato è preoccupato del fatto che non è disponibile alcun dato sistematico e comparabile sull’incidenza dell’HIV tra le donne tossicodipendenti in carcere. Inoltre il Comitato è preoccupato del fatto che le donne immigrate vengano infettate dall’HIV/AIDS in maniera esponenziale.

- R. 48-51/2011: relazioni familiari e conseguenze economiche del divorzio . Il Comitato nota che la mediazione obbligatoria nell’ambito dei procedimenti di divorzio non si applica nei casi di violenza intra-familiare, ma rimane comunque preoccupato per la durata delle procedure di divorzio, che può accrescere il rischio di violenza nei confronti delle donne…50. Il Comitato ha notato che la Legge n.54/2006 ha introdotto l’affido condiviso (fisico) come via preferita in caso di separazione o divorzio. Tuttavia il Comitato è preoccupato per la mancanza di studi sugli effetti di questo cambiamento legale, in particolare alla luce di ricerche comparative che indichino gli effetti negativi sui minori, specialmente sui bambini più piccoli, in caso di imposizione dell’affido condiviso. Il Comitato è, inoltre, preoccupato per il fatto che, nell’ambito dei procedimenti relativi all’affido condiviso, in caso di presunti episodi di abuso sui minori, possano essere prodotte consulenze basate sulla dubbia teoria della Sindrome da Alienazione Parentale.

- R. 52-53/2011:gruppi di donne svantaggiate . Il Comitato è profondamente preoccupato che esse sono soggette a forme di discriminazione multipla relativamente all’accesso all’istruzione, alla salute ed al lavoro. Il Comitato rimane, inoltre, preoccupato per la violenza e la discriminazione di genere che tali donne subiscono nelle rispettive comunità, quali il matrimonio precoce. Il Comitato, inoltre, nota la prevalenza delle mutilazioni genitali femminili tra le donne migranti. Il Comitato è, infine, preoccupato dal fatto che il Rapporto dello Stato-membro contiene insufficienti informazioni circa le misure prese per migliorare la situazione delle donne anziane e per il fatto che le donne anziane possano essere marginalizzate, in particolare quelle migranti.

L’importanza del Rapporto Ombra è enorme anche sul piano simbolico.

Abbiamo visto come i diritti fondamentali delle donne, pur essendo riconosciuti a livello costituzionale e di legislazione di attuazione di norme costituzionali, spesso in concreto non trovano protezione adeguata per il solo fatto che non vengono accettati dal sistema culturale egemonico, quello patriarcale, come norme fondamentali dell'ordinamento, ma vengono piuttosto considerate alla stregua di principi programmatici,dunque derogabili. E che sull'etica dei diritti, quindi, prevale l'etica dei valori.

La potenza simbolica del Rapporto Ombra sta nell’aver declinato le istanze femministe, la critica di genere al diritto ed alla politica, in termini di violazione dei diritti umani: facendo prevalere nella rivendicazione, quindi, l’etica dei diritti su quella dei valori.

Declinare le istanze del femminismo in termini di diritti fondamentali, consente di richiamare lo Stato alle proprie responsabilità, e la condanna da parte degli organi internazionali nei suoi confronti costituisce una cerimonia di degradazione per le Istituzioni coinvolte, che favorisce una discussione pubblica sui valori sociali, sui confini simbolici della società.

Lo spostamento delle rivendicazioni femministe su un piano “glocale” costituisce un efficace meccanismo politico di giustiziabilità dei diritti fondamentali basati sul genere, che connette la lotta delle donne italiane a quella delle donne di altri continenti: pensiamo ad esempio alla Raccomandazione all’Italia sul femminicidio ed alla condanna dello Stato messicano davanti alla Corte interamericana dei diritti umani per i femminicidi avvenuti nello Stato di Chihuahua, resa possibile grazie alla mobilitazione dei gruppi femministi messicani che hanno reclamato le gravi negligenze del Governo messicano nel prevenire indagare e reprimere tali crimini come una violazione sistematica dei diritti delle donne. E pensiamo agli effetti della sentenza “Campo Algodonero” della Corte interamericana dei diritti umani sulla sentenza “Opuz c. Turchia” della Corte Europea per i diritti umani….

L'alleanza creata dall'attivismo femminista con gli organismi regionali e internazionali a tutela dei diritti umani, dimostra che le donne possono essere esse stesse artefici del cambiamento, soggetti politici in grado di trasformare il punto di vista valido e consolidato sul precedente autoritativo .

Se vogliamo, parafrasando Deleuze, la rivendicazione femminista agita sul piano internazionale, costituisce nella società (patriarcale) del controllo globale, una delle più radicali forme di resistenza capaci di “ridare una chance a un comunismo inteso come “organizzazione trasversale di individui liberi”” .

Per questo, continueremo a promuovere come Giuristi Democratici la più ampia conoscenza e partecipazione possibile a questo tipo di processi, sia attraverso iniziative di sensibilizzazione che iniziative di formazione, al fine di accelerare il processo verso una democrazia di genere, inclusiva di tutte le differenze: l’unica democrazia possibile.